Il provvedimento di acquisizione sanante: la comunicazione di avvio del procedimento

Il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, con le sentenze gemelle 2 e 4 del 20 gennaio 2020, torna sul tema dell’occupazione illegittima e sancisce l’impossibilità di una rinuncia traslativa alla proprietà del bene occupato dalla Pubblica Amministrazione. La questione concerneva il dubbio in ordine alla possibilità da parte del proprietario che abbia subito una illegittima occupazione, di agire in giudizio non per chiedere la restituzione del bene, ma per chiedere il risarcimento del danno, rinunciando, esplicitamente o implicitamente, alla proprietà del bene stante l’irreversibile trasformazione dello stato dei luoghi. Il tema era stato più volte affrontato in giurisprudenza, con esiti contrastanti, seppure le ultime pronunce emesse sia dal Consiglio di Stato che dalla Corte di Appello, parevano voler andare verso un accoglimento di tale possibilità. Ora il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria e con due sentenze gemelle, esclude categoricamente tale possibilità, evidenziando come l’illecito permanente commesso dalla pubblica amministrazione possa risolversi solo con:
  • un atto di accordo tra le parti stipulato davanti al Notaio con traslazione volontaria della proprietà
  • la restituzione del bene ad opera della Pubblica Amministrazione, con rimissione in pristino dello stato dei luoghi e il pagamento dell’occupazione illegittima
  • l’emissione di un provvedimento di acquisizione sanante ad opera della Pubblica Amministrazione
Ecco riportato il testo integrale della sentenza del Consiglio di Stato, Ad. Plenaria, n. 2 del 20 gennaio 2020 Per vedere invece il testo della sentenza del Consiglio di Stato, Ad. Plenaria n. 4 del 20 gennaio 2020 clicca qui SENTENZA Consiglio di Stato ad. plen. – 20/01/2020, n. 2

Intestazione

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10 di A.P. del 2019, proposto da Pa. Fa., rappresentato e difeso dagli avvocati Gianluigi Bidetti e Fabio Valenti, con domicilio eletto presso lo studio Laura Polimeno in Roma, via Giulio Venticinque, 6; contro Ministero delle Infrastrutture (Già Min. Lavori Pubblici), Anas S.p.A. (Già Ente Nazionale per le Strade – Anas), in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; nei confronti Cocemer S.p.A. Cg A.T.I., Ati – Le. S.r.l., Ati – Pal Strade S.r.l., Ati – Ssp Costruzioni S.r.l. non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione staccata di Lecce (Sezione Prima), n. 3373/2007, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 novembre 2019 il Cons. Paolo Giovanni Nicolò Lotti e uditi per le parti gli avvocati Gianluigi Bidetti, e dello Stato Davide Di Giorgio. FATTO L’odierno appellante ha proposto ricorso al T.A.R. deducendo che il decreto ministeriale di data 8 aprile 1992, che ha approvato il progetto dei lavori di costruzione della Tangenziale ovest della città di Lecce ed ha fissato i termini per la realizzazione dei lavori e l’emanazione dei decreti di esproprio, era stato annullato dalla Sezione Quarta del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2719-2000 e che era stata nel frattempo realizzata l’opera pubblica sul suo terreno, irreversibilmente trasformato in assenza di un decreto d’esproprio. L’appellante aveva, quindi, chiesto il risarcimento del danno in conseguenza della illecita e illegittima apprensione del bene, essendo certamente impossibile la restituzione. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione di Lecce, sez. I, con sentenza 25 settembre 2007, n. 3373 ha ravvisato un’ipotesi di occupazione acquisitiva, che integra “un fatto illecito ascrivibile a responsabilità della P.A. che si perfeziona a partire dal momento in cui il possesso del suolo di proprietà del ricorrente deve essere considerato sine titulo” e ha accolto l’eccezione di prescrizione del diritto del ricorrente al risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, rilevando che l’occupazione d’urgenza sarebbe divenuta illegittima il 21 ottobre 1997, sicché il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 2947 c.c. (applicabile ai sensi dell’art. 2043 c.c.) sarebbe decorso alla data di notifica del ricorso di primo grado, avvenuta il 5 agosto 2004. Parte ricorrente, attuale appellante, ha proposto il presente appello, contestando l’accertata prescrizione e deducendo che egli avrebbe perduto il diritto di proprietà, con la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà del suolo in questione in capo alla P.A., avvenuta con la sua apprensione del bene. Le controparti appellate hanno contestato la fondatezza delle censure dedotte, concludendo per il rigetto dell’appello. Il Collegio della Sezione semplice di questo Consiglio, cui era assegnata la causa, ha emesso sentenza parziale e contestuale ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria (sentenza parziale/ordinanza 30 luglio 2019, n. 5391). Nel merito, ha ritenuto che il TAR avesse erroneamente accolto l’eccezione di prescrizione. A questo punto, ha verificato quali ulteriori statuizioni andassero emanate per definire la controversia e ha ritenuto che, nel caso di specie, in applicazione dell’art. 42-bis Testo Unico Espropriazione, avrebbe dovuto ordinare all’Autorità che utilizza la tangenziale di emanare un provvedimento che disponesse o l’acquisizione del bene al suo patrimonio indisponibile o, in ipotesi, la sua restituzione. Previamente, tuttavia, ha rilevato due questioni giuridiche di massima, strettamente connesse e pregiudiziali alla decisione dell’appello, ovvero:
  1. a) se la domanda risarcitoria degli appellanti vada qualificata come dichiarazione di ‘rinuncia abdicativa’ del bene in questione;
  2. b) se, in caso affermativo, una tale rinuncia abbia giuridica rilevanza.
All’udienza pubblica del 13 novembre 2019 la causa veniva trattenuta in decisione dall’Adunanza Plenaria. DIRITTO
  1. La questione di diritto sottoposta a questa Adunanza riguarda la configurabilità, nel nostro ordinamento giuridico, della rinuncia abdicativa quale atto implicito ed implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall’illecito permanente costituito dall’occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo.
Deve in primo luogo perimetrarsi il tema d’indagine oggetto del presente giudizio. La questione, infatti, non riguarda l’ammissibilità in generale dell’istituto della rinuncia abdicativa, che conosce un vivace dibattito in altri settori dell’ordinamento. Infatti, benché il Legislatore non abbia espressamente disciplinato in una norma ad hoc la rinuncia abdicativa, la prevalente tradizionale dottrina ne afferma la sua ammissibilità. Trattasi di un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, dismette, abdica, perde una situazione giuridica di cui è titolare, rectius esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso. Gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono anche incidere sui terzi, sono, infatti, solo conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente ricollegabili all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto, tant’è che la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia cd. traslativa proprio per la mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge. Per il suo perfezionamento non è, pertanto, richiesto l’intervento o l’espressa accettazione del terzo né che lo stesso debba esserne notiziato. L’oggetto del presente giudizio è, al contrario, limitato alla rinuncia abdicativa nella materia dell’espropriazione, e riguarda la mera possibilità di riconoscere la rinuncia abdicativa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A., in seguito, come detto, all’irreversibile trasformazione del fondo occupato.
  1. La tesi della rinuncia abdicativa deriva dai principi affermati in tema dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza 9 febbraio 2016, n. 2, intervenuta peraltro per la diversa finalità di chiarire quali siano i poteri del commissario ad acta nominato per l’esecuzione dei provvedimenti occorrenti ad ottemperare ad un giudicato amministrativo relativo ad una vicenda di acquisizione cd. sanante ex art. 42-bis. TUEs.
La tesi in discussione è stata per la prima volta organicamente e sistematicamente ammessa dalla giurisprudenza amministrativa con la sentenza del CGA 25 maggio 2009, n. 486 ed è stata ricostruita negli stessi termini dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 19 gennaio 2015, n. 735), per i casi devoluti alla giurisdizione del giudice civile, nei giudizi instaurati prima della entrata in vigore della legge n. 205-2000, che ha poi previsto la giurisdizione amministrativa esclusiva in materia espropriativa. Favorevoli alla rinuncia abdicativa sono state anche Cass. civ., sez. I, 24 maggio 2018, n. 12961, nonché Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2017, n. 5686. Ancora di recente la sentenza Cass. civ., Sez. Un., n. 3517-2019, resa in materia di impugnazione di un atto di asservimento coattivo in sanatoria ex art. 42-bis T.U. espropriazione, ha ribadito princìpi consolidati in dichiarata adesione a quanto espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 2 del 2016. Anche la giurisprudenza di questo Consiglio si è più volte pronunciata nel senso dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa in materia espropriativa (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 24 maggio 2018, n. 3105; Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2018, n. 2396).
  1. L’orientamento favorevole evidenzia che tale linea ricostruttiva presenta, sul piano pratico, aspetti favorevoli per il privato espropriato.
In primo luogo, infatti, valorizza il principio di concentrazione della tutela ricavabile ex art. 111 Cost., quale corollario del principio di ragionevole durata del processo, che sarebbe pregiudicato dalla sua segmentazione in una fase amministrativistica relativa al giudizio sulla legittimità degli atti espropriativi e in una fase civilistica per la determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato. In secondo luogo, offre maggiori garanzie di compensare integralmente l’utilità (rectius: il bene) perduto dal privato, poiché, il quantum deve essere corrisposto al soggetto espropriato a titolo di risarcimento del danno (che è ordinariamente integrale) e non a titolo di indennizzo (che invece, come è noto, è solo parametrato al valore del bene perduto). Inoltre, poiché il risarcimento del danno è connesso alla proposizione della relativa domanda da parte del privato in giudizio, che implica rinuncia abdicativa, è da tale momento che si verifica un debito di valore, con tutte le note implicazioni in tema di interessi legali e rivalutazione. Questa Adunanza ritiene tuttavia che l’ipotesi ricostruttiva della rinuncia abdicativa, quanto meno nella materia in esame, non possa essere condivisa. Essa, invero, sul piano strutturale e normativo, si espone a un triplice ordine di obiezioni; e segnatamente: – non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante; – la rinuncia viene ricostruita quale atto implicito, secondo la nota dogmatica degli atti impliciti, senza averne le caratteristiche essenziali; – soprattutto, e in senso decisivo e assorbente, non è provvista di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a livello di diritto europeo. Va ricordato, infatti, sotto questo profilo, che occorre evitare, in materia di espropriazione cd. indiretta, di ricorrere a istituti che in qualche modo si pongano sulla falsariga della cd.occupazione acquisitiva, cui la giurisprudenza fece ricorso negli anni Ottanta del secolo scorso per risolvere le situazioni connesse a una espropriazione illegittima di un terreno che avesse tuttavia subìto una irreversibile trasformazione in forza della costruzione di un’opera pubblica. È noto che tale istituto non può più trovare spazio nel nostro ordinamento a seguito delle ripetute pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ne hanno evidenziato la contrarietà alla Convenzione Europea, in particolare per quanto riguarda l’art. 1 del primo protocollo Addizionale (ex multis, sentenza CEDU 17 novembre 2005).
  1. Per quanto riguarda la prima obiezione (mancata spiegazione esauriente della vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante), si deve rilevare, infatti, che se l’atto abdicativo è astrattamente idoneo a determinare la perdita della proprietà privata, non è altrettanto idoneo a determinare l’acquisto della proprietà in capo all’Autorità espropriante.
Nel diritto privato, è discusso se l’art. 827 c.c. possa essere la base legale di una dichiarazione di rinuncia del proprietario di un diritto reale immobiliare, a parte i casi previsti dalla legge, ed effettivamente tale norma prevede che gli immobili che non sono in proprietà di alcuno spettino al patrimonio dello Stato, quale effetto giuridico conseguente ad una determinata situazione di fatto (vacanza del bene). Tuttavia, tale acquisto, peraltro a titolo originario e non derivativo, si realizzerebbe in capo allo Stato e non in capo all’Autorità espropriante, attuale occupante e in possesso del bene, che sarebbe del tutto esclusa dalla vicenda giuridica pur avendone costituito la causa efficiente tramite l’illecita apprensione del bene del privato. La spiegazione dell’effetto traslativo, pertanto, sarebbe del tutto eccentrica rispetto al rapporto amministrativo che viene innescato dall’Amministrazione espropriante, rendendo evidente l’artificiosità della soluzione teorica proposta. Né l’effetto traslativo può essere recuperato attraverso l’ordine di trascrizione della sentenza di condanna al risarcimento del danno (e, quindi, della sua rinuncia abdicativa implicita a favore dell’Amministrazione espropriante), atteso che, come è noto, le vicende della trascrizione si pongono solo sul piano dell’opponibilità verso terzi degli atti giuridici dispositivi di diritti reali, ma non disciplinano la validità e l’efficacia giuridica degli stessi. Se l’atto non è in sé idoneo a determinare il passaggio del bene in capo all’Amministrazione espropriante non potrà già di per sé essere trascrivibile e all’eventuale ordine del giudice contenuto nella sentenza non potrebbe riconoscersi base legale.
  1. Per quanto riguarda la seconda obiezione (rinuncia abdicativa quale atto implicito, ma carenza in tale rinuncia delle caratteristiche essenziali degli atti impliciti), si deve ricordare che la rinuncia abdicativa, se riferita al ricorso giurisdizionale, non viene effettuata dalla parte, né personalmente, né attraverso un soggetto dotato di idonea procura.
Nel campo del diritto amministrativo, come è noto, è ammessa la sussistenza del provvedimento implicito quando l’Amministrazione, pur non adottando formalmente un provvedimento, ne determina univocamente i contenuti sostanziali, o attraverso un comportamento conseguente, ovvero determinandosi in una direzione, anche con riferimento a fasi istruttorie coerentemente svolte, a cui non può essere ricondotto altro volere che quello equivalente al contenuto del provvedimento formale corrispondente, congiungendosi tra loro i due elementi di una manifestazione chiara di volontà dell’organo competente e della possibilità di desumere in modo non equivoco una specifica volontà provvedimentale, nel senso che l’atto implicito deve essere l’unica conseguenza possibile della presunta manifestazione di volontà (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. VI, 27 novembre 2014, n. 5887 e, di recente, Cons. Stato, Sez. V, n. 589 del 2019). Ciò che emerge dalla dogmatica degli atti impliciti nel diritto amministrativo è inequivocabilmente la sussistenza di un atto formale, perfetto e validamente emanato il quale contiene “per implicito” un’ulteriore volontà provvedimentale, oltre a quella espressa claris verbis nel testo del provvedimento medesimo. È evidente, in questa ricostruzione, che non sussistono violazioni del principio di legalità dell’azione amministrativa perché la volontà amministrativa esiste ed è contenuta in un atto avente tutte le caratteristiche previste dalla legge per conferirle validità, con la peculiarità che detta volontà è ricavabile da un’interpretazione non meramente letterale dell’atto. Nel caso di specie, tuttavia, l’istituto della rinuncia abdicativa si pone come radicalmente estraneo alla teorica degli atti impliciti che, così come ricordato, riguarda solo gli atti amministrativi e non gli atti del privato. Né è possibile, evidentemente, utilizzare lo stesso paradigma per ricondurre la volontà di chiedere il risarcimento del danno alla volontà di abdicare alla proprietà privata. In primo luogo, sul piano sostanziale, non sembra che da una domanda risarcitoria sia possibile univocamente desumere (null’altro che) la rinuncia del privato al bene: la domanda risarcitoria, infatti, denuncia inequivocabilmente un illecito di cui la parte richiede la riparazione; ma a fronte della pluralità di strumenti offerti dall’ordinamento nonché in presenza di una disciplina legale del procedimento espropriativo, la domanda risarcitoria non può costituire univoca volontà espressa di rinuncia al bene. Sul piano formale, poi, va considerato che la domanda di risarcimento del danno contenuta nel ricorso giurisdizionale amministrativo è una domanda redatta e sottoscritta dal difensore e non dalla parte proprietaria del bene che ha la disponibilità dello stesso e che è l’unico soggetto avente la legittimazione ad abdicarvi, in quanto atto incidente e dispositivo di un bene immobiliare proprio della parte. Né è, altrettanto evidentemente rinvenibile una procura a vendere (rectius: a rinunciare) nel mandato difensivo della parte al proprio difensore, che non contiene neppure implicitamente una legittimazione al difensore a rinunciare al diritto di proprietà del proprio assistito.
  1. Ma, al di là delle criticità che appalesa l’adesione alla teoria della rinuncia abdicativa nella materia in questione, è decisiva, per la soluzione del quesito posto, la terza ed ultima obiezione (assenza di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove è centrale il principio di legalità), di cui deve rimarcarsi il carattere assorbente per escludere l’operatività della rinuncia abdicativa quale strumento legalmente idoneo a definire l’assetto degli interessi coinvolti in una vicenda di espropriazione cd.indiretta.
Al riguardo, si deve ricordare in primo luogo che, ai sensi dell’art. 42, commi 2 e 3 Cost., la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge (che, peraltro, “ne determina i modi di acquisto”) e può essere, “nei casi preveduti dalla legge”, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. La rinuncia abdicativa non costituisce uno dei casi previsti dalla legge. Anzi, in una certa prospettiva, sembra richiamare -come si accennava- l’ormai tramontato istituto dell’occupazione acquisitiva, di cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha evidenziato la contrarietà alla Convenzione Europea. Come è noto, l’istituto della c.d. occupazione “appropriativa” o “acquisitiva”, che determinava l’acquisizione della proprietà del fondo a favore della pubblica amministrazione per “accessione invertita”, allorché si fosse verificata l’irreversibile trasformazione dell’area, è un istituto di origine pretoria, sorto con la sentenza della Corte di Cassazione 26 febbraio 1983, n. 1464. L’istituto, che pure rispondeva, nel silenzio della legge, all’esigenza pratica e sistematica di definire l’assetto proprietario di un bene illegittimamente occupato e il conseguente assetto degli interessi, risultava peraltro evidentemente privo di base legale ed è stato pertanto ritenuto illegittimo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la conseguenza che, attualmente, il mero fatto dell’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non assurge a titolo di acquisto, non determina il trasferimento della proprietà e non fa venire meno l’obbligo dell’Amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. L’istituto della rinuncia abdicativa, di chiara matrice pretoria, finirebbe per presentare gli stessi problemi e dubbi interpretativi entrando in eliminabile tensione con i principi enunciati dalla Corte Europea e con le guarentigie apprestate al diritto di proprietà dalla nostra Carta Costituzionale.
  1. È nel delineato contesto normativo che il legislatore nazionale è intervenuto per regolare la fattispecie in esame, fornendo per ciò stesso una base legale, sistematica e coerente, alla disciplina ivi prevista, dapprima con l’art. 43 TUEs. (approvato con il d.P.R. n. 327-2001 ed entrato in vigore il 30 giugno 2003) e poi, dopo la dichiarazione della sua incostituzionalità per eccesso di delega, con l’art. 42-bis (introdotto nel testo unico dall’art. 34, comma 1, L. n. 111 del 2011).
Infatti, per i casi di occupazione sine titulo di un fondo da parte della Autorità devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è in vigore la specifica disciplina prevista dall’art. 42-bis del testo unico sugli espropri, che ha in dettaglio individuato i poteri e i doveri della medesima Autorità, nonché i poteri del giudice amministrativo. L’art. 42-bis, in particolare: – prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo aver valutato, con un procedimento d’ufficio (che può essere sollecitato dalla parte in caso di inerzia), gli interessi in conflitto, adotti un provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto; – in altri termini, vincola l’Amministrazione occupante all’esercizio del potere ed attribuisce alla stessa un potere discrezionale in ordine alla scelta finale, all’esito della comparazione degli interessi; – comporta che, nel caso di occupazione sine titulo, l’Autorità commette un illecito di carattere permanente (Ad. Plen., 9 febbraio 2016, n. 2; Sez. IV, 31 maggio 2019 n. 3658; Sez. IV, 13 maggio 2019, n. 3070; Sez. IV, 21 marzo 2019, n. 1869; Sez. IV, 18 febbraio 2019, n. 1121; Sez. IV, 18 maggio 2018, n. 3009; Sez. IV, 30 agosto 2017, n. 4106; Sez. IV, 1° agosto 2017, n. 3838; cfr. Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830; Sez. IV, 27 giugno 2007, n. 3752; Sez. IV, 16 giugno 2007, n. 2582, con considerazioni sull’allora vigente art. 43, rilevanti nel sistema incentrato sull’art. 42-bis); – esclude che il giudice decida la ‘sorte’ del bene nel giudizio di cognizione instaurato dal proprietario; – a maggior ragione, non può che escludere che la ‘sorte’ del bene sia decisa dal proprietario e che l’Autorità acquisti coattivamente il bene, sol perché il proprietario dichiari di averlo perso o di volerlo perdere, o di volere il controvalore del bene. Come se il proprietario del bene fosse titolare di una sorta di diritto potestativo a imporre il trasferimento della proprietà, mediante rinuncia al bene (implicita o esplicita che sia), previa corresponsione del suo controvalore (non rileva, sotto questo profilo, se a titolo risarcitorio o indennitario). L’art. 42-bis ha, quindi, definito in maniera esaustiva la disciplina della fattispecie, con una normativa autosufficiente, rispetto alla quale non trovano spazio elaborazioni giurisprudenziali che, se forse giustificate in assenza di una base legale, non si giustificano più una volta che intervenga un’esplicita disciplina normativa, ritenuta conforme al diritto europeo e alla Costituzione, che viene a costituire la base legale espressa della fattispecie in questione. La fattispecie di cui al predetto art. 42-bis è evidentemente delineata in termini di potere-dovere: non implica certo che l’Amministrazione debba necessariamente procedere all’acquisizione del bene, ma impone che essa eserciti doverosamente il potere di valutare se apprendere il bene definitivamente o restituirlo al soggetto privato, secondo una concezione di potere-dovere, o doverosità di certe funzioni, che è nota da tempo nel tessuto del diritto amministrativo e che discende dai noti principi di imparzialità e buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.). Già l’art. 43, poi dichiarato incostituzionale, peraltro, aveva consapevolmente introdotto nel sistema norme di chiusura, volte ad attribuire all’autorità amministrativa il potere di dare a regime una soluzione al caso concreto quando gli atti del procedimento divengano inefficaci per decorso del tempo o siano annullati dal giudice amministrativo, consentendo ‘una legale via d’uscita per gli illeciti già verificatisi’ (Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830; Sez. IV, 6 agosto 2014, n. 4203; Sez. IV, 15 settembre 2014, n. 4696): analoghe considerazioni valgono, dunque, per l’art. 42-bis che ne ha ereditato lo scopo e la funzione.
  1. Ad avviso dell’Adunanza, dunque, per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis una rigorosa applicazione del principio di legalità, in materia affermato dall’art. 42 della Costituzione e rimarcato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, richiede una base legale certa perché si determini l’effetto dell’acquisto della proprietà in capo all’espropriante. E se la norma non prevede alcun riferimento a un’ipotesi di rinuncia abdicativa – che, peraltro, così delineata, avrebbe tutti i caratteri strutturali e gli effetti di una rinuncia traslativa- è stato per converso introdotto nell’ordinamento una disciplina specifica e articolata che attribuisce all’amministrazione una funzione autoritativa in forza della quale essa può scegliere tra restituzione del bene o acquisizione della proprietà nel rispetto dei requisiti sostanziali e secondo le modalità ivi previsti. Nessuna norma attribuisce per contro al soggetto espropriato, pur a fronte dell’illegittimità del titolo espropriativo, un diritto, sostanzialmente potestativo, di determinare l’attribuzione della proprietà all’amministrazione espropriante previa corresponsione del risarcimento del danno.
Inoltre, poiché l’art. 42-bis dispone che il titolo di acquisto possa essere l’atto di acquisizione (espressione di una scelta dell’autorità), si ritiene che non si possa attribuire alcun rilievo a tal fine a un atto diverso, vale a dire al successivo atto di liquidazione del danno, peraltro emanato in esecuzione di una sentenza; in altre parole, né dall’art. 42-bis né da altra norma può ricavarsi l’attribuzione dell’effetto giuridico di rinuncia abdicativa alla fattispecie complessa derivante dalla coesistenza della sentenza di condanna e dell’atto di liquidazione del danno. Invero, per l’art. 42-bis l’autorità può acquisire il bene con un atto discrezionale, in assenza del quale scattano gli ordinari rimedi di tutela, compreso quello restitutorio, non residuando alcuno spazio per giustificare la perdurante inerzia dell’amministrazione, che non solo apprende in modo illecito il bene del privato, ma che attraverso una propria omissione (non esercitando il potere all’uopo previsto dalla legge) finirebbe per ottenere la proprietà del bene stesso ancora una volta al di fuori delle procedure legali previste dall’ordinamento. La scelta, di acquisizione del bene o della sua restituzione, va effettuata esclusivamente dall’autorità (o dal commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo, all’esito del giudizio di cognizione o del giudizio d’ottemperanza, ai sensi dell’art. 34 o dell’art. 114 c.p.a): in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il proprietario possono sostituire le proprie valutazioni a quelle attribuite alla competenza e alle responsabilità dell’autorità individuata dall’art. 42-bis. Pertanto, il giudice amministrativo, in caso di inerzia dell’Amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., può nominare già in sede di cognizione il commissario ad acta, che provvederà ad esercitare i poteri di cui all’art. 42-bis d.P.R. n. 327-2001 o nel senso della acquisizione o nel senso della restituzione del bene illegittimamente espropriato. Qualora, invece, sia invocata solo la tutela (restitutoria e risarcitoria) prevista dal codice civile e non si richiami l’art. 42-bis, il giudice deve pronunciarsi tenuto conto del quadro normativo sopra delineato e del carattere doveroso della funzione attribuita dall’articolo 42bis all’amministrazione. Non sarebbe peraltro ammissibile una richiesta solo risarcitoria, in quanto essa si porrebbe al di fuori dello schema legale tipico previsto dalla legge per disciplinare la materia ponendosi anzi in contrasto con lo stesso. Il che non significa che il giudice possa nondimeno, ove ne ricorrano i presupposti fattuali, accogliere la domanda. A ben vedere, infatti, la domanda risarcitoria, al pari delle altre domande che contestino la validità della procedura espropriativa, consiste essenzialmente nell’accertamento di tale illegittimità e nella scelta del conseguente rimedio tra quelli previsti dalla legge. È infatti la legge speciale, nel caso di espropriazione senza titolo valido, a indicare quali siano gli effetti dell’accertata illegittimità: il trasferimento non avviene per carenza di titolo e il bene va restituito. La restituzione può essere impedita dall’amministrazione, la quale è tenuta, nell’esercizio di una funzione doverosa (e non di una mera facoltà di scelta) a valutare se procedere alla restituzione del bene previa riduzione in pristino o all’acquisizione del bene nel rispetto di tutti i presupposti richiesti dall’articolo 42 bis e con la corresponsione di un’indennità pari al valore del bene maggiorato del 10 per cento (e quindi con piena e integrale soddisfazione delle pretese dell’espropriato). Ad ogni modo, l’ordinamento processuale amministrativo offre un adeguato strumentario per evitare, nel corso del giudizio, che le domande proposte in primo grado, congruenti con quello che allora appariva il vigente quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale di riferimento assurto a diritto vivente, siano di ostacolo alla formulazione di istanze di tutela adeguate al diverso contesto normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda ove ne ricorrano le condizioni, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell’art. 37 Cod. proc. amm. o l’invito alla precisazione della domanda in relazione al definito quadro giurisprudenziale, in tutti i casi previa sottoposizione della relativa questione processuale, in ipotesi rilevata d’ufficio, al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, Cod. proc., a garanzia del diritto di difesa di tutte le parti processuali. Resta poi fermo che la qualificazione delle domande proposte in giudizio passa attraverso l’interpretazione dei relativi atti processuali, rimessa al giudice investito della decisione della controversia nel merito.
  1. Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, deve dichiararsi il seguente principio di diritto:
– per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata. La causa va quindi rimessa alla Sezione semplice di competenza (Quarta Sezione) per la decisione dell’appello. Spese al definitivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede di Adunanza Plenaria, Dichiara il seguente principio di diritto: – per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata. Rimette gli atti alla Quarta Sezione per l’ulteriore corso della causa. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati: Filippo Patroni Griffi, Presidente Sergio Santoro, Presidente Giuseppe Severini, Presidente Luigi Maruotti, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Marco Lipari, Presidente Diego Sabatino, Consigliere Bernhard Lageder, Consigliere Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti, Consigliere, Estensore Oberdan Forlenza, Consigliere Giulio Veltri, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Massimiliano Noccelli, Consigliere DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 20 GEN. 2020.
CORRADO BRANCATI © Copyright Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A. 2020 18/02/2020

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